«Sire: il popolo ha occupato la Bastiglia!»;
«…E’ una rivolta?»;
«No, Sire: è una rivoluzione».
 
Il DUCA DI LINCOURT e LUIGI XVI

Il concetto di “Rivoluzione” è più complesso di quanto non si possa pensare ad un esame superficiale. Tendenzialmente, chi pensa alla rivoluzione spesso tende infatti a confondere tale concetto con altri sistemi di “attacco al potere” che però non hanno nulla a che fare con essa. Ma è importante imparare a comprendere il vero significato dell’espressione, perché ci illumina su alcuni aspetti fondamentali del concetto e del funzionamento del “potere costituito”. Tempo fa avevo fatto una vera e propria ricerca sul significato di Rivoluzione, che ho scelto di riassumervi in questa sede.

La Rivoluzione è intesa, volgarmente, come:

a) una manifestazione nazionale che riunisce la stragrande maggioranza del popolo;

b) un vero e proprio attacco armato alle sedi istituzionali;

c) una serie di rivolte violente che si scatenano in vari luoghi del Paese e che riescono alla lunga a rovesciare il Governo.

Tuttavia, nessuna di queste tre ipotesi può essere definita “rivoluzione”.

a) non può la mera manifestazione, che è una semplice richiesta di un qualche diritto formulata al potere: la rivoluzione presuppone infatti che il popolo non riconosca più l’autorità costituita, mentre i manifestanti si rivolgono proprio al potere, riconoscendolo di fatto.

b) non può neppure la seconda ipotesi, definita meglio come “colpo di Stato”, poiché si tratta di una strategia paramilitare (essa è infatti avviata da un esercito e non dal popolo), che attacca direttamente le sedi istituzionali, eliminando con la forza delle armi le gerarchie esistenti e sostituendosi ad esse; come tale, esso non mira a modificare il sistema vigente, che infatti non muta, ma solo ad occupare le posizioni di potere, lasciando inalterato tutto il resto.

c) neppure le rivolte potranno però mai essere definite “rivoluzione”: è vero infatti che la rivolta mira, come la rivoluzione, a modificare l’assetto vigente; tuttavia, essa non sarà mai in grado di farlo davvero, almeno finché non diventa rivoluzione.

Ed è proprio la differenza tra rivolta e rivoluzione a fornirci il dato essenziale che contraddistingue il concetto di rivoluzione: la semplice rivolta non potrà mai trasformarsi in rivoluzione perché i rivoltosi devono comunque la loro sopravvivenza allo stesso sistema a cui si ribellano.

Il rivoluzionario, invece, non riconosce più il potere non semplicemente perché gli è ostile; il rivoluzionario smette di riconoscere l’autorità perché non gli serve più.

Cerchiamo allora di specificare meglio questo aspetto, di importanza fondamentale per comprendere cosa sia effettivamente una rivoluzione.

In qualunque società del mondo il popolo obbedisce al potere, anche quello oppressivo, in quanto quest’ultimo gli garantisce in cambio i mezzi di sussistenza di cui ha bisogno (protezione, lavoro, servizi, assistenza, infrastrutture); quindi, in parole povere, farselo nemico produrrebbe più svantaggi che benefici.

Ma quando, per una qualunque ragione, questa dipendenza viene meno, e il popolo si emancipa dalla struttura che lo controlla, il potere viene delegittimato progressivamente senza neppure bisogno di “attaccarlo”, perché vengono meno, di fatto, i vantaggi che fino ad allora avevano spinto il popolo ad obbedire, mentre diminuiscono drasticamente le possibilità di subire conseguenze dalla mancata obbedienza.

Ecco cosa cambia dalla rivolta alla rivoluzione: si passa dalla prima alla seconda quando il popolo si è emancipato dal potere costituito, ha cioè ottenuto la capacità di provvedere da sé al soddisfacimento dei suoi bisogni essenziali.

Un popolo armato fa una rivolta; un popolo emancipato fa una rivoluzione.

Solo se il cittadino non ha più bisogno dell’autorità può permettersi di ignorarne i precetti senza subirne conseguenze; fino ad allora potrà informarsi, resistere, protestare, manifestare, anche fare azioni violente, ma resterà sempre e solo un ribelle, non diverrà mai un rivoluzionario.

Ma come funziona allora concretamente un atto rivoluzionario? Per spiegarlo mi rifarò all’esempio di rivoluzione per eccellenza: la Rivoluzione Francese.

La caduta dell’Ancién Régime iniziò a causa di una crisi economica che aveva colpito la Francia, aggravata da una carestia che aveva decimato il bestiame di molte regioni; le rivolte che esplodevano in giro per il Paese, dunque, erano inizialmente spinte più dalla carestia e dalla fame che dal desiderio di libertà e democrazia. Rivolte che, peraltro, venivano spesso represse nel sangue e che dunque non portavano mai a risultati apprezzabili.

Il fatto che determinò la vittoria sul potere costituito e quindi la trasformazione di una mera rivolta in vera e propria rivoluzione non fu affatto un evento paramilitare, una sommossa particolarmente cruenta o uno scontro armato; fu un accadimento di tutt’altro genere ma ancor più significativo, che quindi merita di essere raccontato.

Nel diffondersi della carestia e della crisi, il popolo continuava a chiedere a gran voce di essere ascoltato dal Sovrano; per non aggravare la ribellione generale, il Re si decise allora a convocare gli “Stati Generali”, scelta che veniva presa solo in occasioni del tutto eccezionali.

Gli “Stati Generali” erano i tre grandi ordini sociali: la nobiltà (Primo Stato), il clero (Secondo Stato) e il popolo(Terzo Stato).

Tradizionalmente, nell’assemblea in questione i tre ordini disponevano di un voto ciascuno e il Terzo Stato, che rappresentava il 96% dei francesi, chiese che il computo dei voti fosse modificato in ragione dell’effettiva rappresentanza posseduta da ogni ordine, sapendo che nobili e clero (che rappresentavano solo il restante 4%della popolazione) avrebbero comunque imposto qualunque decisione avessero voluto, disponendo di due voti contro uno solo.

Il Giuramento della Pallacorda

Ma il Re si oppose e il Terzo Stato fu così “tagliato fuori” dalle votazioni; per protesta, esso si ammutinò a quell’assemblea e si riunì a parte (in un campo di Pallacorda, sport antenato del tennis) per dare voce alle istanze del popolo che il Re aveva scelto di ignorare.

Pur non avendo, sulla carta, alcuna autorità (era sempre il monarca a detenere il potere legislativo e quello esecutivo, esercitandoli nell’assemblea tradizionale), i partecipanti a quella riunione formularono quello che passò alla storia come “Giuramento della Pallacorda”, con il quale decisero di tramutare quella stessa assemblea in un organo permanente, che sarebbe stato il centro politico “del vero popolo francese” fino a che il Re non si fosse deciso a concedere una Costituzione e dei diritti civili.

Una riunione apparentemente innocua, nata spontaneamente e quasi di impulso, che ebbe tuttavia conseguenze determinanti sulle sorti del Paese. Non si trattava più, infatti, di una semplice rivolta: la scelta di istituire una struttura politica alternativa a quella imposta dal sovrano non costituiva solamente un affronto all’autorità del Re, bensì un vero e proprio gesto di emancipazione dalla stessa, perché il centro decisionale appena creato si rese presto conto di essere in grado di formulare leggi ed applicarle, imporre tasse e riscuoterle, stabilire qualunque forma di intervento sul territorio. Inoltre, e soprattutto, era obbedita e legittimata dal 96% del popolo.

Presto il Terzo Stato, cioè tutto il popolo, si accorse che l’autorità regia non aveva più senso di esistere, e con essa l’intero sistema feudale. Era iniziata la Rivoluzione.

Un popolo resta tale anche senza un Re, ma un Re non è più tale se non ha un popolo.

Il risultato? Quell’assemblea, assolutamente priva di poteri giuridici e fuori dal sistema costituzionale vigente, appena due mesi dopo il giuramento stava già scrivendo la nuova Costituzione Francese.

P.T.